Ahref propone Timu: per fare squadra nell'informazione civile - Luca De Biase

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Sarebbe bello se ci fosse un modo per condividere informazioni senza cedere i contenuti alle piattaforme che usiamo, se l'indirizzo sul quale pubblichiamo restasse di nostra proprietà, se il metodo con il quale pubblichiamo fosse discusso e migliorato insieme, se potessimo imparare a fare meglio quello che vogliamo fare, se ci fosse un modo per lanciare iniziative di ricerca di informazione da fare insieme e, magari, essere premiati per la qualità di quello che facciamo... Sarebbe bello, dunque, perché non tentare di farlo? Il tentativo proposto dalla Fondazione Ahref si chiama Timu. Ho contribuito anch'io a immaginarlo. E una squadra di studiosi, programmatori, esperti ed entusiasti lo ha realizzato. Sarebbe bello che chi passa da questo blog si interessasse all'idea e volesse dedicasse un po' di tempo a vedere se funziona, se può servire, come può migliorare. Come ogni beta Timu può migliorare solo attraverso una bella pratica di proposte, feedback, miglioramenti, e così via.
Di che si tratta?

I media sociali sono una grande occasione di rinnovamento del modo di informarsi e fare informazione. E il bello dei media sociali è che a loro volta non cessano di rinnovarsi. Fanno venire voglia di contribuire, magari di partecipare al processo dell'innovazione. Fanno venire in mente: "posso farlo anch'io?". Di solito la risposta è "sì".
Prima di tutto, sono le persone che li usano a creare le maggiori novità. Anche in Italia. La vicenda dei recenti referendum ha dimostrato che la rete riesce a informare e contare molto nel panorame dell'informazione: il quorum è stato raggiunto per il grande lavoro che è stato fatto da tantissime persone in rete, con l'appoggio di alcuni importanti giornali, ma non certo per l'informazione proposta dalla televisione.
In secondo luogo, il rinnovamento viene dalle piattaforme. Che a loro volta non cessano di innovare. Se ne dibatte spesso. E ce n'è bisogno. Perché si possono usare un po' meglio se si comprende come funzionano. E perché ci sono un sacco di cose che si possono migliorare.
Si parla molto di privacy, di modelli di business, di strategie delle grandi aziende e di opportunità per le piccole aziende o per i professionisti. C'è un tema che resta meno discusso di altri: gli incentivi impliciti nelle piattaforme.
Le piattaforme, proprio per come sono disegnate, contengono un insieme di incentivi, cioè favoriscono certi comportamenti piuttosto che altri. Si direbbe che, per esempio, Wikipedia sia disegnata in modo da favorire la collaborazione alla realizzazione di un progetto comune; mentre, per esempio, Facebook sia disegnata in modo da favorire l'incontro e il riconoscimento tra le singole persone, sottolineando i loro progetti e le loro curiosità personali più che un progetto comune. Quora e Ted Conversations sono disegnate in modo da favorire comportamenti seri e collaborativi, anche se non dichiarano un progetto specifico come quello di Wikipedia. Twitter sembra soprattutto orientata (e orientante) allo scambio di link di attualità, anche se non è certo solo questo.
Questi incentivi impliciti nel loro design funzionano anche quando le piattaforme sono usate per fare informazione. Il che ha delle conseguenze. Il metodo Wikipedia non ha funzionato tantissimo per l'attualità. Facebook ha un grandissimo impatto sul traffico dei giornali online, ma non sembra orientata a fare emergere un'agenda comune: piuttosto sembra favorire la moltiplicazione delle proposte di agenda. O sbaglio? Twitter va veloce e sembra fantastica per l'immediatezza dei messaggi, ma ovviamente non è fatta per gli approfondimenti che richiedono spazio e tempo: di solito ci si trova la novità ma poi si va a cercare di capire di più sui siti e i blog di informazione.
Molti temono che nella fretta delle attività che si svolgono sui social network si perda di vista la distinzione tra ciò che è informazione e ciò che è comunicazione. E soprattutto che si tenda a stare nei luoghi della rete più facilmente comprensibili, nei quali le persone la pensano in modo omogeneo. E che quindi si formino gruppi di interessi separati. Qualche volta persino ideologicamente separati. Ovviamente ciascuno può interpretare l'opportunità della rete come vuole e secondo le sue sensibilità. Ma sarebbe un'occasione sprecata non tentare di costruire qualcosa che invece incentivi a incontrare le altre persone e a collaborare con loro non in base agli interessi e alle ideologie ma a piccoli o grandi progetti di informazione da mettere in comune per obiettivi civili.
La rete è nata da un insieme di culture orientate alla collaborazione. Si sa che i militari l'hanno finanziata all'inizio, ma si sa anche che le prime applicazioni vere sono state portate avanti dagli scienziati. E gli scienziati partono - quasi sempre - da quella meravigliosa cultura della condivisione, da quell'idea che la ricerca vada avanti correttamente e creativamente solo se ci si scambiano i risultati degli esperimenti, solo se ci si critica in base a un metodo comune. Senza farne una questione personale, perché in fondo si lavora - si dovrebbe lavorare - per l'avanzamento della conoscenza di tutti.
Alla cultura degli scienziati si è unita fin dalle origini della rete la cultura degli hacker orientati a comprendere e innovare le macchine in modo da favorire la collaborazione e lo scambio di risorse. Inoltre, in quella cultura si è sviluppato il valore di "fare qualcosa" senza subire passivamente l'andazzo generale. Infine, la pratica del lavoro nell'open source è riuscita a far crescere un insieme di tecniche per il miglioramento della qualità complessiva dei prodotti che emergevano dalla collaborazione.
Gli economisti dei beni comuni, i giuristi dei creative commons, hanno poi aggiunto consapevolezza sulle forme con le quali il diritto d'autore e le altre nozioni collegate alla produzioni di contenuti possono essere orientate verso la collaborazione.
Quelle culture originarie hanno influenzato molto anche i modi con i quali gli utenti hanno lavorato all'informazione. I blogger hanno imparato subito a citarsi vicendevolmente per riconoscere il lavoro fatto dagli altri, in nome della crescita dell'informazione di tutti.
Certo, l'impetuosa crescita dell'uso della rete, ha qualche volta messo in secondo piano queste istanze, a favore di altre finalità perfettamente legittime: il successo commeciale, la notorietà, la promozione di movimenti, l'aggregazione di comunità di interessi, e così via. Di certo, non è passato di moda il senso della collaborazione, ma vale la pena, ogni tanto di ribadirlo.
La collaborazione nella produzione di informazione si può basare soltanto su un metodo condiviso. E anche questo metodo va ogni tanto ribadito. Soprattutto nell'ambito dei civic media usati dai cittadini.
Non occorre molto, probabilmente. Il metodo che distingue l'informazione dalla comunicazione generica, in fondo, può avere una formulazione relativamente semplice: chi vuole che la sua informazione serva con una certa qualità verificabile in nome della collaborazione tenta di solito di produrla con accuratezza, indipendenza, imparzialità e legalità.
Perché non dichiararlo esplicitamente? Per farlo si può anche pubblicare un'icona tipo quella che si trova anche in questo blog in basso a sinistra, vicino all'icona di Creative Commons. È una delle possibilità che si aprono usando Timu. Che è una beta. E ha bisogno di feedback. (L'icona stessa è in elaborazione...).
Il 15 settembre ne parlo al MediaLab con il gruppo Civic Media col magico Ethan Zuckerman. Spero di andarci con un bagaglio di esperienza, reazioni, consigli...

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