Abbiamo avuto i cagnolini e i quattro milioni di posti di lavoro e la gara a diminuire le tasse (a suon di promesse, eh). Il quotidiano balletto delle alleanze proposte e negate. La polemica voto utile/voto inutile. E poi, bum! si è dimesso il papa. E, poiché oggettivamente trattasi di faccenda epocale, allora tutti zitti e oscurati in un trionfo di esegesi vaticana, peraltro condita da non poche preoccupazioni di dettaglio (che succederà all’Anello del Pescatore?) e perfino da qualche refolo millenaristico (orpo. La profezia di Malachia!).
Così, possiamo forse definitivamente abbandonare la speranza che, almeno, all’ultimo, dalla campagna elettorale spuntino alcuni temi che riguardano il futuro di questo paese. Li elenco qui, per buona memoria.
Competitività. Leggete l’articolo di Antonio Polito: non siamo più competitivi, l’energia elettrica costa troppo, non conviene più produrre qui. Si potrebbe aggiungere che anche il costo del lavoro è troppo alto, nonostante i salari siano troppo bassi, perché dalla nascita dell’euro a oggi è cresciuto in Italia il 30% in più della media europea. Si potrebbe aggiungere che non si investe in ricerca applicata, che il mercato del lavoro è ancora uno dei più rigidi del mondo, che i gradi di burocrazia necessari per avviare un’impresa sono cinquanta come le sfumature del grigio. Uno studio in circolazione a Francoforte mette il nostro Paese in fondo alle classifiche di tutti i fattori di competitività, compresi i livelli di corruzione e di educazione. Secondo il finanziere Ray Dalio (per dire: uno che ha superato George Soros) la «formula per il successo economico», sarà determinata al 65% dalla competitività e solo al 35% dal livello d’indebitamento. E l’Italia fa molto peggio nella prima graduatoria, dov’è ultima dopo Grecia, Francia e Spagna, che nell’altra dove è nella parte bassa ma non proprio in fondo. Dalio dice che siamo poco competitivi perché ci piace la bella vita. Su questo credo che sbagli. Un’altra spiegazione possibile è che siamo poco competitivi perché ci piace la brutta politica.
Ricerca. Scrive Antonio Stella: oggi l’America mette nella ricerca il 2,8% del suo Pil, contro l’1,26 dell’Italia. E in Germania la Merkel ha lanciato la «Exzellenzinitiative» incrementando i fondi per la ricerca, in cinque anni, di 10 miliardi di euro. Spiega una tabella elaborata su dati Ocse da Federico Neresini, curatore dell’Annuario scienza e società, che i Paesi che più investono in questo settore coincidono con quelli che meglio reggono all’urto dei colossi della manodopera a basso costo come Cina o India: se noi abbiamo 4 ricercatori ogni 1.000 occupati (la metà dell’Europa allargata: 7) la Norvegia ne ha 10,1, la Svezia 10,9, la Danimarca 12,6, la Finlandia e l’Islanda 17…Lo stesso studioso dimostra che se dal 1981 al 1990, nella vituperata Prima Repubblica, siamo passati dallo 0,85% all’1,25 del Pil, da vent’anni non ci schiodiamo da quella miserabile percentuale. E intanto, mentre facevamo i bulli ai vertici G7, gli altri acceleravano. Dice Silvio Garattini, farmacologo, direttore dell’Istituto Mario Negri: ci devono dire cosa dobbiamo fare. Vogliamo lasciare il campo libero ai concorrenti stranieri o diamo un impulso per rinascere?
Istruzione. Guardati i dati pubblicati da Istat di recente. In Italia l’incidenza della spesa in istruzione e formazione sul Pil nel 2010 è pari al 4,5 per cento, valore inferiore a quello dell’Ue27 (5,5 per cento).
>> Nel 2011 il 44 per cento circa della popolazione in età compresa tra i 25 e i 64 anni ha conseguito la licenza di scuola media inferiore come titolo di studio più elevato; tale valore risulta molto distante dalla media Ue27, pari al 26,6 per cento (…) II dati più recenti sul livello delle competenze (indagine Pisa dell’Ocse), mettono in luce una situazione critica per gli studenti italiani in tutte le literacy considerate e collocano il nostro Paese agli ultimi posti nella graduatoria dei paesi Ue.
Il link arancione all’inizio di questo paragrafo vi rimanda a una serie di schede chiare e corredate di grafici, che meritano di essere viste.
È chiaro, mi auguro, che senza istruzione e senza ricerca non può esserci competitività. E che senza competitività non c’è sviluppo, e che senza sviluppo non ci sono risorse per l’istruzione e la ricerca (e, per inciso, non c’è lavoro, né prospettiva, per il paese). E voi, ne avete sentito parlare?
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