I corpi dei Capi | Doppiozero

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Marco Belpoliti
Una delle fotografie che più mi avevano impressionato mentre visionavo gli scatti realizzati dai fotografi ufficiali di Silvio Berlusconi, per scrivere Il corpo del Capo, era un’istantanea realizzata da Alex Majoli. Il Presidente del Consiglio vi appariva in piedi davanti a un pesante tendaggio di color chiaro. Lo sguardo spento, la bocca chiusa, le braccia dietro la schiena. Una posa che sembrava smentire tutta la politica del sorriso, dell’ottimismo, della solarità tipica dell’imprenditore televisivo, prima, e dell’uomo politico, poi. Emergeva dall’immagine qualcosa di lugubre e di funereo che probabilmente stava acquattato da sempre dietro la facciata – la faccia – di Silvio Berlusconi. La pulsione di morte che la pulsione di vita trascina inevitabilmente con sé, e che di solito è occultata dietro la baldanza e l’ottimismo.



Era il 2008. Quella foto, che contraddiceva tutta la politica dell’immagine sin lì condotta dal padrone di Mediaset, dal leader di Forza Italia, dall’uomo di Stato, mi metteva a contatto in modo inequivocabile con una questione che nel libro sulle fotografie del Capo avevo continuamente sfiorato: la morte. Nelle pagine conclusive del saggio ritornavo a un testo di Maurice Blanchot, il saggista e scrittore francese, dedicato ai due regimi dell’immagine, letto anni prima e che mi aveva sempre colpito, e interrogato. Un testo vertiginoso, poiché metteva in campo il fatto che, non solo la fotografia, ma la nostra medesima immagine è strettamente legata alla morte. Solo nella morte, scriveva Blanchot, il defunto comincia a rassomigliare a se stesso: “il cadavere è la propria immagine”. L’immagine riceverebbe la sua sanzione di verità nel momento della morte.
C’è stato chi tra i lettori aveva interpretato quelle pagine come una sorta di redde rationem di Berlusconi stesso. Una sua messa in mora. Forse anche un auspicio. In verità, volevo solo dire che tutta la politica del corpo e dell’immagine condotta nel corso della sua esistenza da Silvio Berlusconi era una fuga continua davanti alla morte, ovvero una fuga dall’intimità con se stesso. La sua intimità, mi veniva di pensare, girando e rigirando tra le mani la foto di Majoli, l’intimità stessa del Capo, è nelle fotografie ufficiali ancora una volta quella di un simulacro: la finzione più vera del vero. La conclusione cui arrivavo è che la politica dell’immagine di Silvio Berlusconi ci rivela qualcosa nonostante lui.
Sono trascorsi tre anni da quello scatto di Majoli, che in Italia si è visto raramente, mentre è apparso più di una volta sui giornali americani, e quella che era solo un’intuizione ora è resa evidente dagli avvenimenti di questi ultimi mesi: l’incoercibile forza dell’istinto di morte che il Capo evoca, anzi che sembra possederlo. Quello a cui assistiamo in questi giorni, in cui trapelano sui giornali e nel web brani di conversazioni telefoniche con lenoni e pronubi, non è certo la parata di Eros, ovvero la philía di Empedocle, bensì il corteo di nêikos. L’amore, la passione, che indubbiamente erano connesse con la sua personalità, sia privata che pubblica, lasciano il campo alla distruzione, una forma di cupio dissolvi che sta nascosta dentro Eros stesso.
Il problema è dato dal fatto che il corpo del Capo appare, a questo punto, inseparabile dal corpo stesso del Paese, ne è strettamente avvinto in un invincibile istinto di morte. In una delle efferate torture che i Romani infliggevano ai loro nemici, o ai cittadini condannati, il corpo di un vivo veniva legato saldamente al corpo di un morto, e poi i due fatti rotolare insieme giù da un pendio ripetendo, se necessario l’azione più volte. Si può figurare, come ha detto qualcuno, che l’Italia sia in questa posizione rispetto al corpo del Capo: qualcosa di vivo che rotola insieme a qualcosa di morto, o che tende alla Morte. Tutta la politica del corpo di Silvio Berlusconi è stata tesa a escludere la morte dal campo delle possibilità, ma, come rivela l’immagine di Majoli, la Morte tallona da presso la Vita.
C’è un altro corpo che s’accompagna in questi ultimi anni a quello del Presidente del Consiglio, anche questo un corpo altamente simbolico. Appartiene al leader della Lega, Umberto Bossi. Si tratta di un corpo devastato dalla malattia, un corpo piegato, doloroso, che il capo leghista non esita a mostrare in pubblico e che, in modo simbolico, rappresenta lo stato stesso dell’Italia, uno stato di malattia e sofferenza rivelato in modo sintomatico, e questo ben prima dell’attuale crisi economica e di fiducia del Paese.
I due leader sono stanchi, affaticati, sono corpi mortali che resistono in forme diverse al ciclo naturale della vita e della morte, e con la loro presenza manifestano più di qualsiasi analisi politica, o economica, lo stato effettivo dell’Italia. Non si può respingere il confronto con la Morte. Per quanto obliato, concludevo nel saggio sul corpo del Capo, prima o poi arriva il tempo della verità di sé, arriva implacabile per tutti, governanti e governanti, umili e potenti, gregari e capi. Questo tempo è ora.

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